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Salvatore Carboni: “Edificare la realtà, un lavoro di squadra”

Un’intervista esclusiva all’architetto di Seui, ideatore de la Fabbrica di Kimbe, il “non-luogo” dell’arte

Salvatore Carboni

“L’architrave che sta nei legami”

“L’arte non è che avere un piano su di una città natale”

Salvatore Carboni, architetto di Seui, nella provincia del Sud Sardegna, è docente di storia dell’arte, scultore e artista; anche se questo dice poco di lui, è molto più di quello che lui riesce a dire di se stesso.

Perché racconta ma è come se avanzasse ipotesi, forse è l’effetto del lavorare con materiali tanto diversi tra loro; forse perché, organizzando mostre, l’affidamento che fa è su certi teoremi o sull’infallibilità del genio umano. Possibile motivo che deve averlo spinto a fondare la Fabbrica di Kimbe, un “luogo non luogo” dove pone la prima mostra nazionale dedicata a Salvatore Deidda, il sardo emigrato a Genova che ha usato la leva del fumetto per sfuggire all’astrazione o all’anonimato.

Da alcuni anni è supplente, liceo scientifico a Seui. Con una madre che rimane vedova quando lui aveva 5 anni: «..una delle vedove della Barbagia, di quella miniera di antracite che decima padri di famiglia, un fenomeno che accade qui e nella Valle d’Aosta».

È il bacino minerario di Corongiu che accoglieva nelle spire dell’attività estrattiva anche le prime donne lavoratrici.

«Babbo è stato tra le ultime vittime della miniera. Una terra saccheggiata in un clima da don Camillo e Peppone, ricordo mio padre: un uomo comunista e cattolico che non fu nemmeno sepolto, erano i tempi della scomunica di Pio XII, l’attacco dei minatori al prete del paese che si difese con una pistola; in primo piano, soprattutto le donne, sollevarono una reazione passionaria volendo portare a dorso d’asino quel parroco che negava il rito religioso per le sepolture dei minatori comunisti».   

Figlio di una madre attivista, giovane ma invecchiata dal lavoro domestico, da un’agricoltura di montagna in cui la realtà del baratto spiega codici di una comunità che tutela se stessa, vestita di nero e con tre figli da crescere, dopo gli anni Sessanta assiste, non senza rammarico, al fenomeno dell’abbandono delle terre. I cittadini di Seui si riversarono a Cagliari dando luogo, negli anni, a ben 800 licenze commerciali. Nel ricambio generazionale le cifre demografiche saranno più che dimezzate; oggi con una media di 25 morti l’anno e con il corrispondente numero di case che vengono chiuse, allo spopolamento si aggiunge la mannaia della pandemia e il sistema di costruzione di questi anni si sgretola.

«Addirittura ti porta a ipotizzare che tutto questo sia voluto, siamo una zattera nel Mediterraneo. Disabitata. Vivere qui, normalmente, presidiando questi posti mi è sembrata la sola risposta semplice a una domanda antica. Il motivo per cui insegno ai giovani, credo».

Spiega questo suo sospetto anche alle nuove leve.

«È nascosta in questi luoghi la ragione per cui, insieme ad amici, abbiamo fondato il Museo Seui, resto aggrappato al mio cordone ombelicale».

Si srotola una vita in quei paraggi, protetti da una cubatura incalcolabile di cielo, diversi ettari di terra prima di raggiungere il mare ed approdare chissà dove. Come se potesse aver luogo soltanto qui la più azzardata tra le ipotesi scientifiche che in molti chiamano futuro.

«Negli anni la mia compagna di Jesi dopo la tesi trova un valido motivo professionale, e insieme ci sorprendiamo immersi in una nuova metrica di sviluppo; di colpo ci siamo trovati a costruire. Fioccano le domande di ristrutturazioni che ci vengono commissionate e, godendo della massima fiducia degli abitanti, procedo dritto al recupero del centro storico in un progetto sponda di cui ancora oggi si vedono le gemmazioni. Il comune accosta al suo progetto di sistema museale anche i miei interventi ed è così che, accanto alla rete della pubblica amministrazione, parte dal basso un volano di pacchetti in un economia di sviluppo dalla valenza simbolica straordinaria. Sembra la lingua madre il denominatore comune di una popolazione operosa che, rifacendosi al glamour della Costa Smeralda®, accede alla sapienza antica di una concezione architettonica presente da millenni sull’isola.

Dopo gli anni Novanta arrivano i primi finanziamenti per il recupero storico. Nella comunità prendono corpo una decina di bed and breakfast che spostano il concetto di ricettività dai canoni logori del turismo concentrato sulla costa, sarà il loft del centro storico a ospitare la Fabbrica di Kimbe».   

Kimbe sta in lingua sarda per il numero “cinque”, a simbolo di una campionatura: la quota di tutte quelle ispirazioni che prevedono di prendere direzioni divergenti. Illimitate. È l’idea di un architetto che si occupa di fotografia, grafica, design, ma è insieme anche una delle rivoluzioni della matematica che si serve di un uomo, immerso in tecniche ed esperimenti, che sembra più che guardare avanti, guardare ovunque.

Coltiva le sue domande in sviluppi di indagini collettive da un osservatorio privilegiato: da quella che lui chiama “casa”; accanto ad amici come Francesco Carboni o Giampaolo Desogus edifica la liturgia modernissima di un sistema museale che quasi niente ha a che vedere con la nostalgia; è un posto dove si trattiene la storia, destinato ad ospitare momenti d’insieme e il Teatro Crogiulo di Cagliari, raccogliendo circa 100 persone alla volta, poi vi è La casa della Magia che è una delle sedi del museo, un’invenzione della creatività in circostanze che hanno un loro funzionamento collaudato dai riti del tempo così come, per la logistica e la diffusione di contenuti, nasce la Cooperativa S’eremigu.

Salvatore Carboni si inventa il murales da asporto «…perché lo posso schiodare, non mi va di sovrapporre un’immagine bidimensionale su di un’architettura tridimensionale già connotata qualitativamente. In un centro storico dove vige una forma di democrazia, non mi sembra giusto intervenire con l’intento di creare ricettività. Come cittadini siamo noi le istituzioni, siamo tenuti al dialogo e a non recedere. Penso ad esempio alla Banda Rossini di Seui, è una street band che conta i suoi 100 anni, qui vengono pagati i maestri che vi insegnano con i proventi delle uscite. In uno sviluppo in prospettiva puntiamo alla montagna come a una forma di turismo non residuale, perché riconsegna l’uomo al centro».

Con il suo Scorie creative identifica l’obiettivo della creazione di un quadro totemico che comprenda la sua intera produzione artistica. Mutagena è il nome della mostra attualmente in corso.

«Sono per l’acquisizione della teoria, per il cambiamento e per un profondo spirito progettuale, la voglia di trasformare è sempre stato un motore per il genere umano. Oggi avverto una nuova voglia di fare e un eccezionale bisogno di spostare i confini verso nuove complicità».

Con Undergrafics, un collettivo di amici e artisti nato nell’86, inizia un’avventura che lo porta a un’esibizione alle Pavoniere a Firenze: realizzare la grafica per mostre tenute a Palazzo Pitti e, tra commissioni di logotipi e marchi, a vincere numerosi premi di design orafo.

Avamposto n 13 è infine l’autodefinizione con cui l’autore-artista si consegna, il nome di un confinamento ma anche di un periplo formale che solo a Seui trova la perfezione logica di connessioni col mondo intero.

Anna Maria Turra

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