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16 Ottobre 2019

Mont’e Prama, i giganti del passato


Sotto la terra di un campo abbandonato nel Sinis di Cabras, Sardegna centro-occidentale, c’è il sito di Mont’e Prama, la più grande scoperta archeologica degli ultimi cinquant’anni che molto ha fatto discutere negli anni Settanta e che oggi, secondo le ricerche condotte dal geofisico Gaetano Ranieri, nasconderebbe ben sedici ettari tutti da scavare.


Resti dell’età del bronzo individuati grazie al georadar da lui messo a punto e che lui stesso definisce «una sorta di radar rivolto verso il sottosuolo», capace di guardare sotto la superficie, strumento con cui è tornato a scandagliare questo sito archeologico.



Sedici ettari nascosti, poco lontano dallo stagno dove nidifica il fenicottero rosa: è questa la piccola grande Pompei, che invece di ettari ne può contare ben quarantaquattro, scoperta in provincia di Oristano che il professore ordinario di geofisica applicata, presso la facoltà di Ingegneria dell’Università di Cagliari, già docente al Politecnico di Torino, presenta alla Fondazione di Sardegna di Sassari nella sua lunga ricerca.
La mappa dell’area archeologica eseguita dal professore dichiarerebbe che in quel campo abbandonato e nel contiguo vigneto, impiantato dopo gli inizi degli scavi, ci sarebbe un universo ben più esteso dei 750 metri quadrati finora censiti dalla Soprintendenza per i beni archeologici di Cagliari e Oristano.



Nel marzo del ‘74 vengono rinvenuti per caso i primi di quei 10 mila frammenti di pietra che avrebbero dato il via ai 27 Giganti di Mont’e Prama.
Vi furono poi due campagne di scavo, tra il 1975 e il 1979 e tra il 2014 e il 2017, con relativi restauri dei ritrovamenti di arcieri, guerrieri, pugilatori che vennero riportati agli sguardi dei contemporanei insieme a 16 modelli di nuraghe e 9 betili che sono pietre sacre.
Un patrimonio più antico di quello di Pompei che risale a un periodo compreso tra il 950 e il 730 a.C e che, attualmente diviso tra il Museo archeologico nazionale di Cagliari, dove è custodita gran parte dei Giganti e il Museo civico Giovanni Marongiu di Cabras, rendono questo luogo uno tra i siti archeologici più importanti e visitati.



Si parla di un’area di ben sedici ettari definita dalle migliaia di “anomalie” individuate proprio grazie al georadar, altrimenti detto ecoscandaglio terreste, che Ranieri definisce “anomalie organizzate” ovvero «linee rette che sembrano strade, case, templi, aree delimitate che possono essere stanze di edifici anche di grande dimensioni», nonché «120 tombe ancora da scavare». Coadiuvato nella sua ricerca dagli archeologi dell’Università di Sassari prospetta una megalopoli nata tra la fine dell’età del bronzo e l’inizio di quella del ferro ricostruita attraverso una serie di modelli 3D. Un’area talmente ampia che, per Ranieri, se i tempi dovessero essere «gli stessi con cui si sono mossi gli archeologi da quando sono saltati fuori i primi frammenti dei Giganti, ci vorrebbero 4mila anni per scavare».



Secondo Ranieri «è assolutamente necessario un vincolo archeologico» visto che si tratta «di un’area in cui sono stati finora effettuati tantissimi ritrovamenti, diverse campagne di scavo e ricognizioni che hanno indicato in maniera evidente la presenza di reperti ancora da portare alla luce.»



Il destino del sito archeologico è ancora per gran parte da compiere e, mentre la “casa” dei Giganti è sempre nascosta sottoterra, gli scavi promessi per l’avvio di questa estate non sono ancora iniziati nonostante il finanziamento sia stato, a quanto pare, già erogato.



Ranieri già nel 2015, rilasciando un’intervista a Pierluigi Tombetti per la rivista Enigmi della Storia, incontrando reticenze da parte delle autorità archeologiche dichiarava: «Autorità archeologiche con il compito primario della tutela dei beni insieme ad alcuni archeologi, considerano che sia reale solo quello che si tocca o che sia raggiunto dallo scavo. Non ammettono che esista una realtà diversa da quella che si vede o che si tocca. Una volta trovato un oggetto lo raffrontano con quelli simili trovati nel resto del mondo per darne un significato e una lettura. Hanno quindi enormi capacità di memorizzazione e cultura umanistica spesso straordinaria. I geofisici invece usano strumenti elettronici che “vedono” il sottosuolo in una realtà diversa, digitale e interpretano i segni anomali con l’utilizzo di processi matematici complessi, in continua evoluzione. Le reticenze possono nascere dalle diverse forme mentali. Il mondo archeologico in sostanza è un mondo che ha protocolli rigidissimi e, soprattutto in Italia, è restio all’uso di tecnologie nuove, se non a posteriori. La ricerca archeologica si basa per gran parte sulle conoscenze storiche e difficilmente si muove in aree dove non ci siano già evidenze. La ricerca geofisica non è “tattile” e si muove applicando rigorosi metodi fisico matematici. Solitamente ha validità soprattutto per le risposte negative, mentre per quelle positive esistono dubbi di interpretazione che si risolvono solo con l’esperienza o ricorrendo a metodi diversi usati in combinazione o a metodi nuovi. È chiaro che è difficile far conciliare le due visioni. Eppure, io trovo incredibilmente interessante l’accoppiata. Oggi discipline come la geofisica stanno all’archeologia come la radiologia fatta di TAC, risonanza magnetica - metodi nati e usati in geofisica - sta alla chirurgia. Solo entrambi, insieme, possono salvare il paziente.»



Nel luogo dove un professore ha intanto già individuato le tracce di un possibile complesso nuragico a dieci metri di profondità nello stagno di Cabras, vivono i fenicotteri rosa. Mentre dall’ipogeo della vicina San Salvatore di Sinis, dalle mura delle stanze in cui si praticava il culto dell’acqua, ecco emergere le immagini di una nave romana, di divinità latine e persino un disegno che sembrerebbe raffigurare l’eruzione del Vesuvio. Così tra Pompei e Mont’e Prama pare definirsi il luogo per un nuovo appuntamento tra archeologia e geofisica.


Anna Maria Turra

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