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I proverbi sardi: sintesi di una cultura millenaria
28 Gennaio 2023


I proverbi sardi: sintesi di una cultura millenaria


Citare i proverbi è a volte un riflesso condizionato ma capirne il significato nascosto è certamente un’operazione più avvincente.


I proverbi, pillole ricorrenti di sapienza popolare, definiti già da Aristotele retaggi di un\'antica filosofia, per Benedetto Croce erano invece un monumento parlato del buon senso. E nella civiltà millenaria sarda se ne contano a migliaia tra proverbi, modi di dire o aforismi. Eppure il primo a dare dignità letteraria a queste argute espressioni sintetiche, bandiere di saggezza spesso in rima, fu il canonico Giovanni Spano che nel 1851-52 le raccolse a margine del suo dizionario, seguendo il criterio alfabetico. Poi si parla di linguaggio in codice cioè di suspos, e di sabìorias cioè pillole di saggezza, per dar completezza alle numerose,  colorite espressioni della vita quotidiana che stanno a fondamento della cultura sarda; e di una civiltà che attinge dalla realtà rurale i suoi insegnamenti primari.



I proverbi sardi, ditzos, in logudorese, dicios in campidanese, non si discostano granché dai proverbi italici e del mondo, e non può essere altrimenti in quanto sintesi della cultura dell\'uomo a tutte le latitudini, ma è interessante evidenziare come la Lingua Sarda, secondo alcuni ritenuta semplice, rudimentale, povera dal punto di vista lessicale, si dimostri anche nei proverbi quanto mai ricca e complessa. E così, per esempio, volere la botte piena e la moglie ubriaca, che nel detto italiano risulta un dilemma, in sardo diventa il trilemma di volere l\'uovo, la gallina e i soldi e suona così: “cherrere s\' ou, sa pudda e su reale”.


E molto spesso la loro traduzione in italiano, per quanto accurata, non riesce a restituirne a pieno sfumature, ironia e quel sotto testo che appoggia l’allusione tra pause e sguardi, perché il proverbio da sempre, setacciando i luoghi comuni dell’esistenza umana li stratifica in una sintesi.
“Non siat chi mi prennat su caddu in sa binza”, letteralmente: non sia che mi leghi il cavallo nella vigna, si usa quando ci si imbatte in qualcuno di le cui reazioni potrebbero costituire una minaccia. Sospende ogni sospetto e mette da parte i tentennamenti la lingua dei nostri avi che, proverbiale, attraversa i secoli.
“Neche o non neche bi pranghet berbeghet”, tradotto: colpa o non colpa ci piangerà una pecora, rimanda alla favola del lupo e l\'agnello e sottolinea che di norma sarà sempre il più debole a pagarne le conseguenze.
Attuali, pur rimandando a un ambito arcaico e pastorale, i proverbi risultano in qualche modo calzanti in contesti diversi. E nel nostro mondo, fitto di tecnologia, le diverse situazioni si prestano alla descrizione che i proverbi sono stati in grado di anticipare in uno straordinario nesso di causa.
Come “chie manizzat mele si nde linghet sos poddighes”, che tradotto parla dell\'apicoltore che lavora il miele con le mani e inevitabilmente poi si lecca le dita, calato in un sistema economico è l’allegoria riuscitissima della corruttibilità umana.
Altri invece vanno dritto per dritto, fuor di metafora, come \"muzere bella, maridu corrudu\", che non ha bisogno di molte spiegazioni. Ma di qualche aggiornamento, legato all’attuale approccio di genere, forse sì. Perché applicare ad ogni bella moglie il paradigma di un marito cornuto, oggi solleverebbe ben più che un’obiezione.



Rimandano alle favole di Fedro, o di Esopo, tutti quei proverbi che hanno come protagonisti gli animali, sotto le loro pelli si nascondono spesso vizi, debolezze e l’intera gamma delle contraddizioni umane. E così asini, cavalli, volpi, corvi, aquile, pidocchi, cavallette e finanche formiche danzano nel rito di brevi citazioni a ricordarci di ricorrere all’assennatezza di quegli umani che, prima di noi, hanno cercato di aggirare l’errore.



Anna Maria Turra





  • Credits photo Simone Sabbieti


  • Studio Pratha, Graziella Carta


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