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Sergio Leone: una vita per il cinema

Un viaggio attraverso l’universo dell’artista per conoscere la lavorazione dei suoi film di culto, l’uomo e la sua formazione

Papà dello Spaghetti western. Regista di Peplum. Di spot pubblicitari, come il premiatissimo Il diesel si scatena del 1981, per reclamizzare la Renault 18. Sceneggiatore. Produttore. Attore. Assistente alla regia. Collaboratore alla regia – alcune scene di Un genio, due compari e un pollo di Damiano Damiani e de Il mio nome è nessuno di Tonino Valerii. Scopritore di star. Un mito per altri colleghi, che ne hanno dichiarato l’influenza esercitata, spesso con parole di affetto e riconoscenza, fra cui, solo per citare alcuni nomi, Quentin Tarantino, John Woo, Ang Lee, Martin Scorsese, Brian de Palma, Sam Peckinpah e lo stesso Clint Eastwood. Sicuramente uno dei più importanti registi della storia del cinema. Italiano, ma non solo. Soprattutto Sergio Leone.

Figlio d’arte – il padre Roberto Roberti era attore e regista e uno dei pionieri del film muto italiano e a e a lui Sergio strizzerà l’occhio firmando a sua volta Per un pugno di dollari con lo pseudonimo anglofono di Bob Robertson; la madre, Edvige Valcarengi, nome d’arte Bice Waleran attrice – inizia la carriera appena diciottenne come attore in Ladri di Biciclette (1948), il capolavoro neorealista di Vittorio De Sica, prima di mettersi dall’altra parte della macchina da presa.
Inizia con il genere Peplum – pastiche storico-mitologico che mischiava elementi dell’antichità e della mitologia greco romana e del vicino Medio Oriente con una grande dose di ironia – prima come aiuto e assistente, fino alla regia avvenuta ne Il colosso di Rodi (1961).

Quando il genere inizia a non dargli più stimoli e a perdere efficace si dedica al western. E lo rivoluziona. Un occhio attento che gli fa scoprire le potenzialità di attori destinati a un futuro da protagonisti. Non solo Clint Eastwood, trasformato da attore di telefilm in vera star – anche se notava Leone al tempo: «Clint ha due espressioni: con il cappello e senza il cappello» – ma perfino Klaus Kinski, scagnozzo gobbo nella cricca di El Indio in Per qualche dollaro in più (1965).

Il tutto in una mostra a carattere multisensoriale che ne racconta la storia e il genio e pensata come un viaggio attraverso l’universo dell’artista e spiega come nascevano i suoi film di culto. Ospitata all’Ara Pacis, C’era una volta Sergio Leone è il titolo evocativo della grande esibizione, in programma fino al 3 maggio 2020, con cui Roma celebra uno dei miti assoluti del cinema italiano, a trent’anni dalla morte e a novanta dalla sua nascita. Un percorso di mille metri quadrati, suddiviso in diverse sezioni: Cittadino del cinema, Le fonti dell’immaginario, Laboratorio Leone, C’era una volta in America, Leningrado e oltre – dedicata all’ultimo progetto incompiuto – L’eredità Leone, concepito come un labirinto emotivo disseminato di finestre, spioncini, porte, specchi e fatto di film, fotografie, documenti, costumi, come il poncho di Clint Eastwood – diventato un’icona del cinema, che campeggia sulla locandina della mostra – bozzetti, ricordi di famiglia, testimonianze video, interviste, scritti, inediti.

Indubbiamente le radici del cinema di Sergio Leone affondano nell’amore per i classici del passato e rivelano un gusto per l’architettura e l’arte figurativa che si ritrovano nella costruzione delle scenografie e delle inquadrature, dai campi lunghi dei paesaggi metafisici suggeriti da De Chirico, all’esplicita citazione dell’opera Love di Robert Indiana, straordinario simbolo, in C’era una volta in America, di un inequivocabile salto in un’epoca nuova. E proprio a quel capolavoro è dedicata un’intera sezione dove si scopre come il regista creò la storia, come realizzò la pellicola, da dove trasse le fonti di ispirazione.

Per Leone la fiaba è il cinema e il cinema è fiaba, desiderio di raccontare i miti (il West, la Rivoluzione, l’America) utilizzando la memoria del cinema e la libertà della fiaba, unendo tutto alla sua cultura di italiano che ha conosciuto la guerra e attraversato la stagione neorealista, affascinato dal passato e ossessionato dal desiderio documentaristico e per la cura di ogni minimo dettaglio. Perché una favola cinematografica, per funzionare, deve convincere gli spettatori che quello che vedono stia accadendo realmente.

Grazie ai preziosi materiali d’archivio della famiglia Leone e di Unidis Jolly Film i visitatori entrano nello studio di Sergio, dove nascevano le idee per il suo cinema, con i suoi cimeli personali e la sua libreria, per poi immergersi nei suoi film attraverso modellini, scenografie, bozzetti, costumi, oggetti di scena, sequenze indimenticabili e una costellazione di magnifiche fotografie, quelle di un maestro del set come Angelo Novi, che ha seguito tutto il lavoro di Sergio Leone a partire da C’era una volta il West.

Curiosità finali: il gruppo rap Colle Der Fomento gli ha dedicato la canzone Sergio Leone; suo compagno delle elementari è stato Ennio Morricone e lo ha stimolato, insieme a Tolkien con il Signore degli Anelli e a Stephen King con il romanzo La Torre Nera: «Il West quasi assurdamente maestoso di Leone […] de Il buono, il brutto, il cattivo è un film epico che rivaleggia con Ben Hur».
La mostra è promossa dall’Assessorato alla Crescita culturale di Roma Capitale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, e arriva in Italia dopo il successo dello scorso anno alla Cinémathèque Française di Parigi, istituzione co-produttrice dell’allestimento romano insieme alla Fondazione Cineteca di Bologna.

Fabio Schiavo

Dal 17 dicembre 2019 al 3 maggio 2020
Roma
Roma Museo dell’Ara Pacis Lungotevere in Augusta
Orari: tutti i giorni ore 9.30-19.30 (la biglietteria chiude un’ora prima); 24 e 31 dicembre 9.30-14. Chiuso il 25 dicembre, 1 gennaio e 1 maggio
Telefono per informazioni: +39 060608
E-Mail info: info.arapacis@comune.roma.it
Sito ufficiale: http://www.arapacis.it/

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