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Sa femina accabadora: la sacerdotessa della buona morte

Immersa nelle tenebre, questa figura a metà strada tra la vita e la morte si faceva strada tra le pianure della Gallura. Scopriamone i dettagli

Sa femina accabadora

Un nome, una cultura da scoprire. Accabadora derivato dal verbo spagnolo “acabar”: porre fine. Immersa nelle tenebre, la sacerdotessa della morte si faceva strada tra le pianure della Gallura. Figura leggendaria della tradizione sarda, rimane un’entità cupa e misteriosa che attira l’interesse dei curiosi, estranei alle paradossali-trasversali usanze dell’isola.

Risalente pare a oltre 1500 anni prima della morte di Cristo, l’eutanasia praticata dall’angelo sardo della morte rimane una delle pratiche che lascia interrogare sul rapporto che intercorreva tra i nostri antenati e la convivenza con la fine della vita. Questa cultura millenaria ancora viva nel presente, fa sì che riaffiori il pensiero, spesso abbandonato, inerente all’inevitabile macabra familiarità con la quale il popolo dovette convivere fino a metà del Novecento.

Tramandate oralmente, le testimonianze raccontano di una donna avvolta da un velo nero pece, che si recava nelle abitazioni delle famiglie dalle quali riceveva richieste d’aiuto.

Sa Femina non si presentava mai a mani vuote. Reggeva un sacchetto nero di orbace (lana grezza e impermeabile) contenente il suo inseparabile compagno: il marteddhu, un martello ricavato da un ramo di olivastro lungo 40 centimetri e largo 20, con il quale accompagnava il moribondo verso l’aldilà.

Il rito millenario

La sacerdotessa aveva un preciso rito da rispettare. Al suo arrivo amici e familiari abbandonavano la casa, lasciando aperta la porta d’ingresso. Allontanati per timore che questi, presi dalla disperazione, intralciassero il suo compito.

Se la donna si stava aggirando nei paraggi, si era certi che il giorno dopo la chiesa del paese avrebbe accolto almeno una famiglia in lutto. Metodo e maestria, e competenze in anatomia, permettevano che agonia e dolori lancinanti venissero risparmiati ai malati ritenuti terminali dalla famiglia.

Il colpo di grazia, una secca martellata all’osso parietale, sulla nuca o sulla fronte. Il soffocamento, con l’aiuto di un cuscino pressato con forza sul viso o tramite la diretta chiusura di naso e bocca, erano i metodi adottati dalla “Accabadora” per porre fine al tormento degli agonizzanti. Terminato il suo compito si dileguava senza lasciar alcuna traccia. I familiari erano ormai liberi di rincasare e pregare il defunto, spogliato, insieme alla stanza, di tutte le sue icone e amuleti sacri, che avrebbero potuto ostacolare il distacco dell’anima dal corpo.

La fine per necessità economica

Sul piano etico quest’entità percepita come tabù dal popolo sardo non è considerata un’omicida. Colei che agevola il passaggio tra luce e oscurità, evitando da secoli che la società agro-pastorale sopportasse il peso di dover badare ai malati, diminuendo così la forza lavoro della famiglia, non può essere considerata complice del diavolo. L’ostentamento economico era tipico di questa classe sociale, non a caso la donna non accettava denaro in cambio del suo servizio, ma bensì prodotti agricoli provenienti dal terreno della famiglia.

Chi era la Femina Accabadora?

Nessuno ne voleva parlare, anche se poi, nel momento del bisogno, tutti sapevano esattamente a chi rivolgersi in paese. Era un vero e proprio tabù. Sul piano etico, la Accabadora era considerata soltanto una sacerdotessa che poneva fine a lunghe e tremende sofferenze. Un lavoro duro e doloroso, certo, ma per alcuni necessario. Soprattutto nelle società agro-pastorali della Sardegna, dove non esistevano medicine per alleviare il dolore. E dove una persona in fin di vita portava oltretutto grandi disagi economici e grande sofferenza per l’intera famiglia. Non a caso, in cambio, la “sacerdotessa” non riceveva denaro, ma prodotti tipici del territorio. Curiosamente, spesso l’Accabadora, era anche colei che assisteva la puerpera, la levatrice, che si occupava quindi delle nascite. Un “impegno” trasversale e allo stesso tempo inquietante, tra la vita e la morte, dove di fatto veniva assistito l’intero ciclo di vita dentro le comunità contadine.

Antica ma non troppo forma di eutanasia

Sa femina accabadora è una donna che praticava un’antica forma di eutanasia, un atto pietoso nei confronti del moribondo, con un secco colpo di martello. Da molti considerata una figura leggendaria della tradizione sarda, in realtà ha agito fino agli anni Sessanta, come raccontano i nostri protagonisti, testimoni oculari delle gesta delle dame della buona morte. Insieme a loro attraversiamo i paesaggi solari della Sardegna e ci immergiamo nelle zone d’ombra di una cultura millenaria ancora viva nel presente, che ci riporta agli eterni e attuali interrogativi sulla morte.

Le testimonianze tratte dal sito del Museo di Luras

A Luras, in Gallura, Piergiacomo Pala, autore di Antologia della Femina Agabbadòra ha creato il Museo Etnografico Galluras, di cui è direttore. Ecco il suo racconto: “Con il caro amico tiu Ghjuanni Maria, mi capita spesso di fare delle passeggiate in campagna. Durante una di queste mi dice che quando era bambino il nonno gli aveva parlato di una donna, delle campagne di Luras, che, utilizzando un martello di legno, aiutava gli agonizzanti a morire. Sul momento la notizia mi lascia indifferente ma, durante la notte, penso che dietro quell’informazione si possa nascondere qualcosa di molto affascinante e importante…”.

Testimonianze

Era buio, la stanza era illuminata da un lumino con olio di lentisco, l’Accabadòra entra nella casa – trovata la porta aperta – si siede accanto al capezzale, carezza la testa del tardo a morire, gli cantilena il rosario, poi una delle tante nenie come quelle utilizzate per fare addormentare i bambini. Infine una botta secca sul cranio, con un suo attrezzo avvolto nell’orbace spesso e nero.

“Sono una che aiuta a morire. Sono stata incaricata da Dio. L’ultimo mio intervento è stato qualche mese fa…”

Perché è importante visitarlo

Il museo conserva il famoso e macabro martello: si tratta di un ramo di olivastro lungo 40 centimetri e largo 20, dotato di un manico che permette un’impugnatura sicura. A ritrovarlo, in uno stazzo – tipica casa di campagna della zona – è stato lo stesso Direttore, dopo 12 anni di ricerche. “Ero venuto a sapere che in quello stazzo aveva abitato una Femina Accabadora. – racconta Pala – Sapevo che il martello doveva essere nascosto lì, ma non potevo immaginare dove. Un giorno, per puro caso, vidi degli operai che stavano demolendo il muretto di confine di quella casa. Notai che nel muretto, solitamente composto da pietre in granito a forma irregolare, vi era una pietra diversa, rettangolare. E proprio lì si nascondeva il martello”.

Esistono ancora le “sacerdotesse” della buona morte?

“Quando ho iniziato a fare ricerca su questo tema era il 1981. – spiega Piergiacomo Pala – Nessuno ne voleva parlare, anche se poi, nel momento del bisogno, tutti sapevano esattamente a chi rivolgersi in paese. Era un vero e proprio tabù. Poi, con il tempo sono riuscito a raccogliere materiale e ad arrivare alla verità”.  In Sardegna sono infatti numerose le testimonianze legate a questa figura, ma quasi tutte vengono tramandate oralmente, di generazione in generazione. Quanto basta per confermare che la sacerdotessa della morte ha esercitato sull’isola fino a qualche decennio fa. Gli ultimi due casi documentati riguardano una morte avvenuta a Orgosolo nel 1952 e una avvenuta a Luras nel 1929.

Dentro La Pagina Mancante di questa vicenda emerge però un altro caso, ben più recente, che risale al 2003. Siamo nella Sardegna centrale, in un paesino nelle vicinanze di Bosa. La prova di questo intervento proviene proprio da una confessione religiosa, clamorosa, di una Accabadora pentita. “L’ho raccolta personalmente – assicura Pala –. È la testimonianza di un parroco che ha ricevuto in confessionale una Femina Accabadora”. La donna avrebbe raccontato di aver finito un uomo molto molto malato, soffocandolo con un cuscino. Questa confessione del peccato è avvenuta a distanza di un mese dalla pratica stessa.

È dunque lecito chiedersi: esiste ancora qualche Accabadora “attiva e praticante” nei piccoli centri dell’entroterra della Sardegna? La risposta resta aperta.

Sibilla Panfili

Si ringrazia Michela Cattaneo Giussani

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