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Il muto di Gallura come un western in salsa sarda

Il film che ha riscosso un notevole successo è ispirato al romanzo storico di Enrico Costa scritto nel 1884

Il muto di Gallura

La Sardegna in questi ultimi anni è riuscita a diventare un grande set cinematografico riuscendo ad attrarre numerose produzioni nazionali e internazionali. Il desiderio di raccontarsi è ciò che accomuna qualunque regista. Ma al di là del genere o dello stile di un autore, in questa regione si stanno aprendo delle occasioni uniche di scoperta dei miti e delle tradizioni del nostro passato da proporre alle nuove generazioni.

Uno dei casi più recenti è stato Il Muto di Gallura, una trasposizione dell’omonimo romanzo scritto nel 1884 da Enrico Costa che descrive la metamorfosi di un uomo schiacciato dalla società fino a diventare uno dei più spietati assassini nel corso di una faida familiare nel borgo di Aggius. Adattare un testo di questo tipo non è mai semplice, ma Matteo Fresi, regista di questo film, ricorda bene che cosa l’ha spinto verso questo percorso: «Quando ho scelto la storia di Bastiano Tansu non era mia intenzione seguire una corrente, anzi, il pensiero di un posizionamento allinterno di di una fetta di mercato o di interesse non mi ha mai toccato. Semplicemente ho pensato che fosse una bella storia, una storia che ho sentito raccontare molte volte fin da bambino, viste le mie origini galluresi da parte di babbo».

Syama Rayner, una delle interpreti protagoniste, vede invece il mondo come se fosse la sua casa. Padre trentino, madre inglese. Nasce però in India, un paese da cui ha tratto moltissimi spunti alimentando non solo la sua curiosità ma anche la sua capacità di mettersi in gioco e di ampliare i suoi orizzonti. Una consapevolezza che notava di avere già da piccola. «Mi piaceva scrivere e soprattutto creare piccoli spettacoli dove obbligavo mio fratello e la mia migliore amica a recitare» – afferma ridendo l’attrice – «Un metodo che non solo mi ha dato la possibilità di scoprire delle parti di me che ritenevo sconosciute, ma mi ha permesso subito di affacciarmi verso dei personaggi che hanno prospettive diverse dalla mia». La Sardegna resta uno dei capitoli più importanti della sua vita. Non appena cita Telti, il paese dove è cresciuta da bambina, le si stringe il cuore al solo pensiero. «La Sardegna per me ha qualcosa di magico. La mia attitudine mi ha sempre portato all’estero, dall’accademia in Galles all’Actors Studio di Los Angeles. Nonostante viva a Londra, alla fine gravito sempre attorno a lei, che è diventata la mia culla artistica».

L’isola, ne Il Muto di Gallura, non è mai rimasta sullo sfondo ma ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo narrativo. «Se è vero» – sostiene Fresi – «che le storie si possono declinare in tempi e luoghi diversi per dar loro nuova linfa vitale (vedi Romeo e Giulietta di Baz Luhrmann), era impossibile sradicare Il Muto dalla sua terra. Lintera vicenda e i personaggi che la vivono sembrano plasmati dallambiente naturale circostante. Con Carlo Orlando, il mio co sceneggiatore, abbiamo scritto gran parte del copione vagando per quelle che poi sono state le vere location del film, e credo che questo girovagare mi abbia aiutato a trasformare il paesaggio in un personaggio vero e proprio». Un racconto che non rinuncia alla modernità sfruttando la forza dei generi cinematografici. «Il western è uno degli ingredienti che abbiamo utilizzato per sospendere questa storia nel tempo. Era importante radicarla nel suo contesto storico originale, ma al contempo volevo darle un sapore universale». Un effetto che si consolida osservando personaggi come Gavina che incarnano l’archetipo della purezza. «Mi ha sempre colpito il suo carattere e la capacità di sospendere quel giudizio su Bastiano che invece era così forte da parte della società dell’epoca». – racconta l’attrice – «Spesso abbiamo paura di qualcosa che non riusciamo a comprendere, e il suo dal mio punto di vista è molto più di un gesto d’amore: è un atto di coraggio».

Il calore e l’accoglienza ricevuta nel corso delle riprese è qualcosa che non si dimentica facilmente: «Andavo ad Aggius praticamente ogni due giorni» – conclude Syama – «e le persone che ho conosciuto lì, insieme al sostegno del regista e degli attori, mi hanno fatto sentire a casa dal primo momento».

Riccardo Lo Re

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