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Coppie nel tempo, le matriarche di tredici anni

Le spose bambine nella Sardegna tra l’Ottocento e il Novecento, raccontate nelle pagine di Grazia Deledda e Sebastiano Satta

spose bambine

Evaporata la struttura della famiglia in un tempo in cui l’amore appare liquido, pensare che nel secolo scorso una coppia non formalizzata costituisse un problema sociale, è paradosso della storia. Eppure, tra spose bambine e unioni non dichiarate nella Sardegna tra l’Ottocento e il Novecento, questo fenomeno segna l’organizzazione di una società altrettanto liquida che appare in nuclei articolati e persino misteriosi. Medio Oriente e Mediterraneo conoscono da sempre il fenomeno delle spose bambine. Sardegna e Barbagia sono al centro di un mare aperto delle relazioni in cui per la donna non esistono grandi spazi di libero arbitrio e, con le dovute eccezioni, le scelte di clan legittimano nell’unione di due famiglie la continuità di un potere economico e sociale.

Le spose bambine in letteratura

Grazia Deledda e Sebastiano Satta hanno scritto pagine immortali di amori e dolori, realizzando nel contempo un reportage di un mondo arcaico e suggestivo. Un universo in cui è del tutto irrilevante la forma in cui viene ad esistere la famiglia, mentre è centrale l’urgenza del legame o la sua naturale necessità.

Stato e Chiesa tra l’Ottocento e il Novecento

Assistendo alla straordinaria diffusione della consuetudine di formare le coppie senza celebrare il matrimonio religioso e, molto spesso, neppure quello civile, la Chiesa ha avuto un ruolo di supplenza rispetto allo Stato e, assistendo nel corpo e nello spirito, la Chiesa si vedeva in qualche modo emarginata quando poi le persone non ricorrevano al sacramento del matrimonio. Del resto, lo Stato riconosceva ben poco al soggetto in quanto componente di una famiglia. In fondo per le divisioni economiche dei beni si era portati a pensare che a tempo debito tutto sarebbe stato dichiarato ma solo se la sorte ne avesse concesso il tempo. Non è raro trovare prove della celebrazione di matrimonio in punto di morte.

Le testimonianze e i documenti

Nei documenti pastorali ricorre una forte preoccupazione per quella forma di convivenza che è il concubinato. Per la regolarizzazione a posteriori delle unioni, venivano emesse dispense che andavano a gravare ulteriormente sulle tasche degli sposi. Fu il vescovo Demartis a scrivere a papa Leone XIII di alleggerire tali costi, accludendo una lettera di un parroco barbaricino che citava: “A quest’ora ho scritto il nome di oltre duecento individui che da anni e anni vivono in peccato mortale; che hanno cinque e sei e anche sette figli illegittimi e che non si hanno mai dato il piccolo pensiero di contrarre matrimonio” e continuava attribuendo al disordine diffuso la causa di reati, numerosissimi nel paese: “Padre mio, una famiglia senza Dio e senza principio veruno di religione. Ora a far cessare questa cancrena io rivolgo tutte le mie cure”.

Anche le levatrici costituiscono una fonte di testimonianze sul campo. A fine Ottocento una di esse scriveva: “Il matrimonio civile e religioso è qui cosa secondaria, basta che l’uomo domandi la mano della donna, perché si condivida il letto offrendo un sacrifizio ad Imeneo, lasciando poi lo sposalizio a quando loro meglio accomoderà”.

I ricordi del saggista Sebastiano Mariani

Sebastiano Mariani, saggista e testimone di una Sardegna in movimento, ricorre alla narrazione straordinaria e paradigmatica di un passato familiare: «Una sorella di mia nonna giocava in piazza a “paradiso”, saltelli virtuosi tra bambine, quando un paraninfo andò a chiederla in sposa, aveva solo 14 anni. Nel corso della formalizzazione del rapporto, quando il futuro sposo arrivò, lei venne mandata in un’altra stanza: quelli non erano discorsi da bambini, cautamente decise di chiudersi dentro un capiente armadio. E’ lì che la sua adolescenza terminò per lasciar spazio alla fase adulta».

Le spose bambine nei racconti di Deledda

“Vedrai, ti ci affezionerai” era la frase che le madri ripetevano alle giovani donne smarrite di fronte al destino di aspettare la sera il rientro di una figura barbuta che avrebbe posato scure e fucile sulla cassapanca prima di raccontare le disavventure della giornata. Ma, come racconta Grazia Deledda, molte delle donne in Sardegna erano anche capaci di voli di indipendenza e di ribellione. «Maria Giuseppa (Manna) Serra, orfana di madre e di padre a un solo anno, a 13 si sposa con il beneplacito di uno zio sacerdote. Manna allevò 11 figli e altrettanti le morirono in tenera età – dettaglia Mariani – con lo sposo a lei era toccata la sua parcella di terreno dove costruire la sua vita, lei abbracciava la sua missione con tutta la sua forza e con l’istinto di una predisposizione genetica. Quell’uomo diventava la sua casa e le stanze erano i suoi figli, che lei erigeva fiera e che difendeva con tenacia senza pari. Da quel momento la sua strada dipendeva solo da lei, dal suo coraggio, dal suo intransigente desiderio d’amore e di unione, con lo stesso orgoglio con cui la sua numerosa progenie la ricorda».

La sposa e il brigante sardo Dionigi Mariani

In un breve articolo nel lontano 1899 si parla del bandito Dionigi Mariani, di un’esistenza immolata nella predestinazione della fuga e dell’eroismo della sua compagna arrestata nella notte

«Mia nonna Sebastiana sposò un bandito: un non sposo, colui che alla macchia le avrebbe dato quattro figli, – racconta Mariani – lei lo andava a trovare in una non luce e in un non letto, perché le gemme possono concepirsi anche al buio, la vita sa attendere l’alba».

E come a sancire che il legame, in qualunque sua forma, fosse un valore che più che venire prima andava ben oltre i sacramenti e gli atti amministrativi, lo scrittore conclude: «Sebastiana, mia nonna, come la nostra isola aveva bisogno d’amore primordiale. Quello scricciolo di donna non era affatto vittima di quella unione. Dionigi era il cervo e cinghiale che trovava il suo ciclamino mentre l’occhio di un moschetto cercava il suo petto, in un destino di non vita circolare, dove la donna è la non regina ma tutto sovrasta, tutto riscalda, tutto piange».

Anna Maria Turra

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